Di Enrico Mapelli
Un Signore fuori dalla pista e un pilota di valore dentro l’abitacolo. Questo il primo pensiero che mi passa nella testa alla notizia della bandiera a scacchi che accompagna la fine dell’esistenza terrena di Patrick Tambay.
Parigino, dai modi eleganti che gli provenivano dalla sua estrazione signorile, dotato di uno stile che portava su quei campi di gara che oltre che ai classici avversari di griglie numerose, lo vedevano confrontarsi con quell’infinita scuola francese che nella Formula 1 di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta, era piena di talenti e speranze. Tutto si è poi concretizzato con i titoli di Alain Prost, ma prima del “Professore” in Ferrari erano transitati Didier Pironi, René Arnoux e lo stesso Patrick, chiamato a sostituire un suo caro amico, Gilles Villeneuve, all’indomani della tragedia di Zolder.
Ma il Tambay che voglio ricordare è un altro. È l’ex pilota che una decina d’anni fa veniva a Monza per seguire da vicino la carriera del figlio Adrien. Con lui era nata una sorta di amicizia che diventava concreta quando lo facevo accomodare al mio fianco nella postazione di speaker all’Autodromo Nazionale. Con le telecamere del servizio interno gli consentivo di scrutare metro per metro le traiettorie del giovane Tambay e, se era il caso, annotarsi gli errori di guida e altro che Adrien aveva compiuto. Come quel venerdì, proprio sul finire delle prove, quando la sua monoposto è uscita di pista alla Parabolica. Patrick al momento, sapendo che i piloti devono sfiorare il limite e a volte questo si può tramutare in un errore di guida, non si era scomposto più di tanto. Si era invece arrabbiato, e me lo aveva spiegato in maniera chiara, perché sceso dalla vettura insabbiata il figliolo se n’era tornato ai box a piedi senza sincerarsi più della sorte della sua monoposto. «Deve restare insieme alla sua macchina e seguire il suo recupero» mi aveva detto senza voler sentir ragioni.
Il giorno dopo il piccolo Tambay resta al comando fino al penultimo giro di gara-1 dell’Auto GP. Patrick è al mio fianco, in religioso silenzio, e nel sedersi mi aveva detto che preferiva non parlare al microfono mentre seguiva la gara del figlio. La sua mano destra tamburella nervosamente giro dopo giro, sono le prime avvisaglie di una terribile malattia, mentre le vicende della corsa vedono il favorito Romain Grosjean rimontare decimi di secondo sul leader della gara, l’amato figliolo di nemmeno vent’anni.
A Lesmo Adrien viene superato dal rivale e alla fine chiude secondo. Il padre è dispiaciuto ma, pur se in tempi e contesti diversi, anche lui aveva chiuso al posto d’onore a Monza e riconosce che è comunque un bel risultato. Era il Gran Premio d’Italia del 1982 e, allora come oggi, a battere un Tambay era stato un connazionale. Arnoux all’epoca, Grosjean quel sabato.
Però l’amarezza scompare dal suo viso e si tramuta in stupore nel momento in cui, senza un copione già scritto, gli dico che potremmo fare una sorpresa per lenire in parte la fresca delusione di Adrien. Vado verso il podio e chiedo a chi si occupa della procedura di premiazione, di solito preordinata e ingessata, se fosse possibile far consegnare le coppe ai primi tre classificati al grande campione del passato. Detto, fatto. L’immagine di Patrick che, emozionato davanti al figlio a sua volta stupito, allunga il trofeo al suo ragazzo, è uno dei ricordi più belli che conservo di questo Signore. Al pari dei ringraziamenti che mi ha esternato subito dopo, ancora incredulo per quella cerimonia così inattesa.