Purtroppo la settimana è iniziata con la triste notizia della scomparsa di Oliviero Toscani, che ebbi modo di conoscere una ventina di anni fa. Premetto che a livello di idee eravamo agli antipodi ma uno degli aspetti positivi del mio lavoro è quello di poter conoscere molte persone interessanti e, soprattutto, in alcuni casi di poter, almeno in parte, approfondirne la conoscenza in modo tale da non fermarsi alla prima impressione superficiale, spesso condizionata da opinioni divergenti, ma di poter avere un quadro – nello specifico direi una fotografia -, abbastanza, reale della persona in questione. Con Toscani ho potuto passare due giorni ma soprattutto dodici ore filate da soli nell’abitacolo di un’auto storica partecipando, in condizioni molto particolari come potrete leggere, alla Winter Marathon 2004.

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Ebbene, oltre a non essermi sicuramente annoiato, ho avuto modo di conoscere una persona certamente istrionica e appassionata di automobili, passione ovviamente condivisa, con cui abbiamo parlato di temi e personaggi a 360 gradi. Naturalmente su molti di questi temi avevamo, e in molti casi continuo ad avere, punti di vista discordanti ma non c’è dubbio che Toscani abbia sempre espresso, con la sua solita schiettezza, valutazioni interessanti e, molto spesso, fuori dalle righe. Tra questi mi dicesti che, come riporto più avanti, amavi viaggiare con vari tipi di automobili. Perciò, ricordandoti, buon viaggio Oliviero!

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Metti una notte di metà gennaio, con un freddo da lupi e l’incognita della neve che può complicare ancora di più un percorso già di per sé impegnativo: 500 chilometri su e giù per le Dolomiti e la Marmolada valicando ben 15 passi alpini. Il tutto in 12 ore (dalle 4 di pomeriggio alle 4 di mattina) e non con una bella vettura moderna dotata di tutti i confort, sia interni sia in fatto di ausilio alla guida, bensì con una vettura d’Epoca, per giunta a trazione posteriore come vuole il regolamento e, come se non bastasse, cabriolet. Cosa ci può essere di meglio? La logica farebbe rispondere un sacco di cose: una serata con gli amici nel ristorante preferito, ad esempio, oppure starsene in dolce compagnia lasciandosi trasportare dall’atmosfera di un crepitante caminetto o ancora, se proprio non c’è di meglio, stravaccarsi in pantofole sul divano godendosi il calore, in tutti i sensi, della pace domestica. Già, ma passione, molto spesso, non fa rima con ragione e allora ecco che avviene la magia e come per incanto ci si ritrova proiettati in un altro mondo, dove un incredibile cielo stellato diventa la capotte ideale, dove il micidiale verglass, nemico invisibile che ti potrebbe spedire in un attimo contro il più duro e stabile dei pini o giù per una scarpata con conseguenze facilmente immaginabili, prende le sembianze di una pista ghiacciata sulla quale “danzare” con la tua bella a quattro ruote, dove la gelida brezza che fa rabbrividire anche la colonnina di mercurio si trasforma in una dolce carezza e nel miglior corroborante per gli ormai rattrappiti polmoni cittadini.

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E dove, dulcis in fundo, la neve, che andrebbe contro ogni logica di partenza intelligente, arriva a benedire, posandosi con dolcezza e facendo da degna cornice, quell’autentica avventura della Winter Marathon. Una tra le regine delle manifestazioni motoristiche invernali, da vivere con l’amico appassionato lustrandosi gli occhi al passaggio di ogni bellezza (e non solo a quattro ruote), oppure con la compagnia di una vita con la quale rivivere, almeno per 12 ore, la spensieratezza di una fuga d’amore, scombussolando l’ordine delle priorità nell’umano rapporto umano tra i due sessi. O ancora, con la nuova fidanzata, mostrando quel pizzico di follia che il tran tran quotidiano non rivelerebbe mai e rischiando di venire mollati appena dopo l’arrivo.

E d’altronde non può essere imputato solo all’effetto del vin brulè se al via si sono presentati ben 150 equipaggi. Per quanto ci riguarda abbiamo già “doppiato” da tempo tutte le tappe di quel processo irreversibile appena illustrato, quindi non ci abbiamo pensato su nemmeno un attimo accogliendo con piacere l’invito di Porsche Italia a partecipare a questa manifestazione, anche perché poter portare a spasso una Porsche 356 SC Cabrio, una vettura davvero affascinante nelle sue forme, è sempre una occasione da prendere al volo e poi saremo al fianco di un personaggio altrettanto intrigante: Oliviero Toscani, che può essere ormai considerato un veterano della Winter Marathon, essendo al via della gara per la terza volta.

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L’appuntamento a Madonna di Campiglio è fissato per giovedì sera, così da essere pronti nella mattinata di venerdì per le verifiche sportive. Toscani non c’è, trattenuto da impegni i lavoro. Ecco, pensiamo, il solito Vip di turno a cui non frega gran che della gara: arriverà all’ultimo minuto, bisognerà accudirlo in tutto e per tutto e andarlo a cercare da qualche parte al momento della partenza, altrimenti addio gara. Insomma, la solita presenza tanto per poter raccontare agli amici “c’èro anch’io”, una fugace passerella e dopo averlo scarrozzato in macchina tanti saluti a tutti. Niente di più sbagliato, come avremo modo di verificare. Toscani, infatti, si presenta la mattina dopo in perfetto orario per le verifiche: per arrivare in tempo è partito da casa alle quattro e mezzo sciroppandosi oltre 500 chilometri al volante della sua gialla Boxster S. Però, una bella tirata se pensiamo che ci attende una notte piena da passare in macchina. “Mi piace viaggiare prestissimo alla mattina, guidare con la bella luce, col sole. – esordisce - Sembra una bella fotografia. A parte la mancanza di traffico, mi piace iniziare così la giornata, perché l’automobile mi trasmette sempre una sensazione pionieristica. Mi mette allegria”.

E nella hall dell’albergo arriva una ventata di entusiasmo. E’ proprio come appare in televisione: catalizza l’attenzione con la sua battuta sempre pronta. Beh, farà parte del personaggio che ormai gli hanno cucito addosso. Vedremo. Dopo le presentazioni di rito ci avviamo in gruppo alle verfiche e nell’affollato salone, tra un saluto e l’altro, cominciamo a “fare equipaggio” dividendoci i compiti: mentre uno recupera la borsa con il “radar” e tutte le altre comunicazioni relative alla gara l’altro si occupa delle tabelle portanumero e delle placche metalliche da applicare alla vettura. Proprio come due amici qualunque.

E la sorpresa aumenta quando rientrati in albergo ci mettiamo con i più esperti Giansante e Rondinelli a scrivere le tempistiche delle varie prove sul road book. Un lavoro molto importante, che tra l’altro consente al sottoscritto di familiarizzare con le modalità di questo tipo di competizione e che Toscani esegue in prima persona scrivendo di proprio pugno a caratteri cubitali i tempi imposti per i tratti di prova cronometrata, evidenziando anche ogni altro tipo di informazione utile per lo svolgimento della gara.

Non solo; il mio compagno di abitacolo è talmente pervaso dal sacro fuoco della competizione che, da concorrente ormai navigato, si è fatto portare una tabella con tre cronometri che ci serviranno per le prove a tempo in sequenza. Tutte cose che mi fanno pensare di avere, forse, tratto delle conclusioni affrettate riguardo la passione del mio casuale socio di avventura. Avremo tempo per scoprirlo. Dopo aver provato e riprovato la sintonia di utilizzo dei cronometri ci concediamo il meritato pranzo e davanti ad un ottimo filetto e del buon Marzemino, il miglior collante per nuove amicizie, cerco di scoprire qualcosa di più del vulcanico Oliviero Toscani.

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Le mie conoscenze in materia si sono fermate alle campagne pubblicitarie di “rottura” targate Benetton ed a qualche intervista televisiva dove Toscani spiegava diversi progetti che andavano ben al di là dell’attività di uno dei fotografi più ricercati a livello mondiale, ma da qui ad avere le idee chiare ne passa. E lui non si fa pregare. “Io sono figlio d’arte. Mio padre faceva il fotoreporter per il Corriere della Sera in un’epoca in cui di televisione ce n’era poca, perciò l’immagine sul giornale era ciò che la gente conosceva e ho appreso da lui il mestiere di fotografo. Certo, adesso le cose sono cambiate, si cura l’immagine, che significa andare a porre i problemi socio politici del marketing e di tante altre cose. Insomma è una cosa complessa. E’ un po’ come fare il regista ed io, oggi, faccio questo mestiere. Quindi ti poni il problema di cosa sia in realtà il marketing, un termine di cui si parla molto ma non è ben chiaro cosa sia in definitiva. Ognuno lo spiega a suo modo, ma io non l’ho mai veramente capito. Forse è una cosa antica che si cerca di adattare al nuovo modo di vivere. Io non penso che il marketing sia solamente qualcosa legato al consumo, così come una persona non può essere relegata al semplice ruolo di consumatore, ma dovrebbe rivolgersi di più alla qualità della vita. Anche i prodotti, perché produrre e consumare sono due aspetti importanti nella storia dell’umanità. Produrre significa lavorare, e lavorare significa tante cose, anche arte, così come consumare vuol dire anche cultura. Infatti, io credo che i giovani sbaglino ad essere contro la globalizzazione, perché penso che se fatta in modo intelligente possa risolvere tanti problemi che affliggono l’umanità”.

Così Toscani ci illustra uno dei suoi nuovi progetti: “Oltre alle lezioni che tengo in alcune università e agli incontri con il personale di diverse aziende sto lavorando ad un progetto con la Regione Toscana per creare una bottega dell’arte della comunicazione. Infatti, sono convinto che il linguaggio attuale non sia più sufficiente a spiegare il mondo in cui viviamo e quindi si debbano cercare nuove forme. Parliamo sempre più di comunicazione ma gli uomini si capiscono sempre meno. Questo centro sorgerà all’interno del Parco della sterpaia e manterrà questo nome perché è perfetto per visualizzare cos’è oggi la comunicazione: una sterpaia appunto, una giungla”.

Ma eccoci al momento della verità. La nostra Porsche 356 Cabrio bianco immacolato fa bella mostra di sé sulla via principale di Madonna di Campiglio in attesa di accodarsi alla carovana e raggiungere la pedana di partenza. C’è solo un piccolo particolare che mi pare non quadrare: la cappottina in tela è stata abbassata e fissata la copertura, il che sta a significare che non sarà una cosa provvisoria, tanto per fare scena alla partenza. Gli uomini Porsche leggono l’interrogativo del mio sguardo e con un bel ghigno non trovano niente di meglio che dire: “beh, a lui piace farla così, con la macchina aperta”.

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Un brivido mi corre lungo la schiena; sarà per i meno cinque gradi che già ci sono nonostante siano le quattro di pomeriggio e ci sia il sole. E “lui” per “tranquillizzarmi” mi mostra una pesante coperta che si è portato da casa per metterci sulle gambe. Con una prova a carico così “pesante” in un’aula di tribunale potrei ottenere pure l’aggravante della premeditazione.

Intanto, l’attenzione intorno a noi cresce e tra una richiesta di autografi, una foto col “Maestro” a fianco della vettura e qualche intervista volante ci avviamo verso la pedana di partenza dove ci attende il  “caldo” saluto del pubblico. Bene, dopo tanti salamelecchi adesso è il momento di fare sul serio, anche perché presi dall’euforia rischiamo di sbagliare strada ancora prima di uscire dalla cittadina dolomitica. Andiamo bene.

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Il tempo di rimetterci in carreggiata e cerchiamo di sciogliere il ghiaccio, in tutti i sensi, chiacchierando un po’. Un aspetto mi incuriosisce dopo aver notato la naturalezza del comportamento di Toscani: cosa significa essere Vip e sentirsi al centro dell’attenzione? “Ma quale Vip. Anzi, alcune volte mi sento un po’ in imbarazzo, perché a me piace frequentare questo ambiente per la passione che vi si respira e in particolare mi piace questa gara, per il suo contesto che mi trasmette lo spirito dell’avventura. Per questo  mi piace farla con la vettura aperta, al freddo. E spero sempre che nevichi. Insomma, situazioni al limite, per confrontarmi con me stesso e vedere come reagirei ad esempio con la tormenta, oppure se si bloccasse la macchina. D’altronde sono questi momenti particolari che si ricordano nella vita, certamente non una giornata passata in ufficio”.

Parole sante. Accidenti, questa si che è passione. Ma come è nata? “Sempre grazie a mio padre: con lui ogni Domenica andavo a San Siro per le partite di calcio e poi all’ippodromo a fotografare l’arrivo dei cavalli, ma il massimo per me era andare all’autodromo di Monza o alla Mille Miglia, perché a me piacevano i motori. Allora era più facile avvicinarsi a questo mondo, tanto è vero che mi è rimasta impressa l’immagine della gente che fumava nei box; oggi sarebbe impensabile. Ho visto da vicino i più grandi piloti di allora: Fangio, Ascari, Collins, De Portago, Gonzales, che mio padre conosceva bene. Anzi, ho ancora una foto con Ascari, ma il regalo più bello lo ebbi in occasione di un mio compleanno, quando mio padre chiese a Fangio di portarmi a fare un giro della pista di Monza sulla Mercedes “ala di gabbiano”: il campionissimo argentino me ne regalò ben tre di giri. Questo ci porta a pensare come, a volte, ad una persona basti uno sforzo minimo per fare felice un’altra persona”.

Beh, non è certo roba da tutti i giorni. E da allora ti è rimasta la passione? “Le automobili mi sono sempre piaciute e non mi vergogno di dirlo a chi vuol fare l’ecologista. Anzi, trovo che l’automobile ha rappresentato un simbolo di libertà soprattutto per la mia generazione, per la quale assumeva un significato di conquista che, forse, oggi i giovani non hanno. Infatti, mi chiedo se oggi i giovani hanno degli obbiettivi così importanti come lo erano le automobili per la mia generazione”.

Le prime esperienze dirette? “Con le motociclette. Studiavo alla Scuola d’arte di Zurigo e ci andavo in moto, con una BSA Golden Flash, sia d’estate che d’inverno. Ho fatto un sacco di chilometri in ogni condizione e d’inverno mi imbacuccavo con il Barbour sotto e l’eschimo sopra, coprendo con il cappuccio anche il caschetto Cromwell. Poi sono arrivate le auto: le ho avute un po’ tutte, dalla 500 alla Giulia, dalla Triumph TR3 a tante Jaguar. La prima, una MK II, la comprai nel ’64 e la feci dipingere completamente nera matt, compresi i raggi delle ruote, con il giaguaro violaceo a pois gialli ed i vetri bruniti. Era una macchina un po’ psichedelica e la conservo tuttora”.

Quindi ha significato un punto di arrivo importante? “Macché. C’è sempre molta strada da fare. Mi divertivo e, fortunatamente, potevo permettermelo perché iniziai a guadagnare bene appena finiti gli studi. Infatti, più che l’idea del possesso a darmi soddisfazione era la sensazione di libertà che mi regalava, perché quando mi sedevo in auto significava che stavo per andare da qualche parte a vedere qualcosa di nuovo, a scoprire un altro mondo. Insomma, stavo per iniziare un viaggio. Un’altra macchina che rappresenta per me una pietra miliare, e che conservo ancora utilizzandola nella mia fattoria in Toscana, è una Land Rover passo lungo che comprai nel ’71 e feci adattare a studio viaggiante, con tanto di brandina, perché volevo intraprendere un viaggio per documentare le brutture del mondo, soprattutto gli scempi fatti da vari geometri e architetti. Iniziai questo giro nel nord della Francia sfruttando il tempo, durante i fine settimana, tornando poi in aereo a Londra per lavorare. Poi per vari motivi dovetti abbandonare questo progetto ma con quella vettura feci grandi viaggi, assieme a mia moglie, dormendo in sacco a pelo, perché a me piace la vita zingaresca, l’avventura. Andare in posti dove non sono mai stato. Il mio motto è: se c’è una strada bene, se non c’è ancora meglio”.

Quindi ti piace macinare chilometri? “Certo. Se posso affrontare un viaggio in macchina piuttosto che in aereo non ci penso due volte, anche se è più faticoso. Infatti la uso spesso per andare a Parigi, dove ho una casa che utilizzo quando sono per lavoro nella capitale francese. Ma quando arrivo in una città la parcheggio e uso i mezzi pubblici o il taxi”. Intanto, tra una battuta e l’altra abbiamo doppiato il Passo Mendola e dopo esserci goduti lo stupendo tramonto dolomitico la gara entra nel vivo con le prime prove a tempo dove cerchiamo di stabilire una certa sintonia. I risultati non sembrano così male, o per lo meno cerchiamo di convincerci che sia così.

E sulle rampe che portano al Passio di Lavazè comincio anche a scaldarmi. Mentre scendono le tenebre, così come la colonnina di mercurio, e il mio “navigatore si lamenta dell’asfalto pulito invocando un po’ di neve. Sta a vedere che a furia di invocarla la natura ci accontenta. Arriviamo così al Lago di Carezza, dove è previsto uno stop di mezz’ora per la cena: che in realtà si riduce a metà calcolando i tempi per parcheggiare la vettura e ripresentarsi al controllo orario successivo. Comunque un po’ di caldo ci voleva e, magari non ci crederete, ma sono anche piuttosto affamato. Una bella lasagna bollente e mentre sto addentando una fetta di arrosto di vitello il mio navigatore è già scattato in piedi come una molla e in preda alla tensione della gara, memore della penalità pagata l’anno prima, mi “da’” il tempo. Eccoci di nuovo fuori in mezzo alla neve, con un tot di gradi sotto zero, fuori e dentro l’abitacolo della nostra “Porschina”. Davanti a noi ancora otto ore di marcia e circa tre quarti del percorso, con i passaggi dei passi più alti che ci attendono al varco. Cerchiamo di concentrarci subito e “l’adrenalina” di una serie prove a tempo ci fa entrare subito in “temperatura”. Sopra di noi uno spettacolo stupendo: le stelle stanno a guardare. Ma che cavolo avranno poi da guardare. Beh, cerchiamo di consolarci divertendoci nella guida della 356, che alla faccia degli anni si mostra più che mai pimpante. 

Ottimo il comportamento sul misto, divertente e prevedibile, così com’è precisa la frenata. Anche sul fondo innevato del Passo Pordoi non ci procura nessun patema, grazie anche alle gomme adeguate. Anzi, troviamo pure il tempo per “pestare” un po’ la coda ad un altro porschista. Intanto i nostri discorsi spaziano ormai a trecentosessanta gradi. Qual è il tuo grande sogno? “Fare l’Oregon Trial, la strada che facevano i pionieri americani andando verso il west. Però, percorrendola al contrario, partendo dalla California, a cavallo, seguito dal mio camion di appoggio (un mezzo con allestimento speciale per il trasporto di 8 cavalli ed anche la zona soggiorno per cinque persone, che Toscani utilizza per i concorsi ippici, l’altra sua grande passione, e alcuni periodi di vacanza). Ci vorrebbero circa sei mesi e non è detto che prima o poi non lo faccia”.

E quello automobilistico? “Mi piacerebbe fare una gara di velocità come la 24 Ore di Le Mans con partenza dall’altro lato della pista, come avveniva una volta. Per ora mi accontento della Mille Miglia; una gara fantastica perché transiti nei paesini e a salutarti incontri tutte le generazioni, dai nonni che hanno vissuto la gara vera ai bambini. E questo lo trovo emozionante. E poi con me c’è Lucio Dalla, un compagno ideale, perché durante la strada canta sempre e io lo aiuto perché non si ricorda le parole delle sue canzoni. C’è solo un piccolo problema: data la sua statura ha difficoltà a ingranare la terza marcia che ha un a corsa un po’ lunga”.

Ti è rimasto dentro quel tipo di Automobilismo? “Certo. Mi sono rimasti impressi quei piloti che correvano con le magliette e le mani sporche d’olio, così come il viso che diventava una maschera. Infatti, devo dire che a me piacciono le macchine inglesi, perché gocciolano sempre un po’ d’olio. A loro ci si affeziona. E’ come l’amore per una fidanzata infedele, che ti maltratta o ti lascia per strada. A loro ti affezioni di più, un po’ come capita per i figli più scapestrati. Le ami perché non sono macchine, sono automobili con tutti i difetti di non essere una macchina. L’automobile inglese è imperfetta, come una bella donna, mentre la macchina tedesca è il massimo della razionalità, dello spartano, e ciò mi ha sempre affascinato. Da giovane pensavo che non era la Rolls Royce a vincere ma la Volkswagen, e non a caso è stata quest’ultima ad assorbire la Marca inglese, perché trovo sia molto più difficile disegnare una macchina del popolo rispetto ad una di lusso. Il massimo sarebbe una macchina che va ad acqua e non ha più nemmeno bisogno del blocco di accensione, perché dovrebbe andare con la pipì, quindi solamente con il DNA del proprietario. Inoltre, dovrebbe integrarsi con l’ambiente che la circonda, magari cambiando colore in base al tempo e illuminandosi quando diventa buio. E poi, un’auto non dovrebbe avere un “corpo” così duro, dovrebbe gonfiarsi quando la metti in moto, come un gommone. Non sarebbe male se in città ci si potesse appoggiare ad una bella automobilista”.

Già, una bella strusciata col “paraurti”potrebbe rappresentare un bel diversivo negli ingorghi cittadini. Strano, eppure non ho perso di vista il mio socio d’avventura nemmeno un minuto durante la cena e sono certo di non aver visto bottiglie di vino sulla tavola. Mah, andiamo oltre. Eppure l’automobile dei tuoi sogni è una tedesca? “La mia preferita è la Porsche 550, perché mi dà l’idea di una navicella spaziale. Mi colpì fin dalla prima volta che la vidi, davanti al Teatro Smeraldo a Milano: avevo circa 10 anni e rispetto alle altre macchine parcheggiate sembrava fosse atterrata da un altro pianeta. Sembrava quasi un “Maggiolino” schiacciato. Mi impressionò subito, perché a me piace ciò che è moderno e rimarrà tale nel tempo, come le piramidi. E quella macchina aveva delle forme che erano fuori dal commercio, era anti marketing. Anzi, proprio questo dovrebbe essere il marketing come lo intendo io e, infatti, è stato un grandissimo successo. E ancora oggi, quando la vedo mi sembra proiettata nel futuro anche se ormai ha compiuto cinquant’anni. Con quel suo rumore, che sembra una pentola di fagioli ma con questo 1.600 che accelera senza smettere mai, quella sua essenzialità, rigore ed anche un lato di crudeltà. Da allora è sempre stato il mio sogno”.

Insomma, un colpo di fulmine, ma come spesso capita nelle storie d’amore c’è voluto un po’ per “consumare” questa unione… “E’ vero. Infatti, la mia prima Porsche l’ho comprata solo pochi anni fa. Siccome io viaggio quasi sempre solo mi sono detto: prendo una due posti che mi dia soddisfazione e con la Boxster S ho trovato la mia macchina ideale. Ma adesso ho già prenotato l’ultima evoluzione, la 550, anche se il sogno sarebbe di possedere la “vera” 550, quella del ’53”.

Ma c’è qualche altra macchina per cui faresti follie? “La Jaguar D, quella con la pinna che correva a Le Mans. Perché un’automobile così è come avere un quadro di un grande artista. Incarna alla perfezione lo spirito delle automobili inglesi, con le sue assurdità, eccentricità, mentre la Porsche non ha nulla di più di quello che si pensi necessario”.

E allora quale sarebbe il tuo garage ideale? “Oltre alle macchine che già ci sono, la Jaguar MK II del ’64, la Land Rover del ’71, una Range Rover che uso molto perché appena ci salgo mi sembra di essere in vacanza, una Mercedes 55 AMG che considero la “belva” e la Boxster che invece considero le mie “scarpe del tennis”, per essere soddisfatto mi basterebbe avere una Jaguar D e la Porsche 550”.

Intanto, a proposito di desideri, Toscani in qualche modo è stato accontentato: al secondo passaggio sul Pordoi ci becchiamo una bella nevicata. Non è proprio una tormenta ma crea ugualmente un’atmosfera da lupi, con la lancetta del termometro dell’olio inchiodata al minimo sindacale – che sia gelato anche lo strumento?- e la bottiglia dell’acqua piazzata sul sedile posteriore che nel frattempo si è trasformata in una bella stalattite. Ma ormai nulla ci può fermare, siamo pienamente coinvolti nella gara e lo scandire dei secondi, ma soprattutto delle tante chiacchiere, accompagnano ogni metro del percorso. Comunque, possiamo dire che le automobili d’epoca erano tutta un’altra cosa? “Beh, le automobili moderne mancano del fascino dell’eccentricità, anche delle cose errate come potevano essere le cromature, che non servono a nulla e inquinano. Oggi le automobili sono fatte con la razionalità del cervello elettronico e questo mi dà un po’ di tristezza. E’ un po’ come vivere in certi paesi dove tutto è preciso: in fondo gli svizzeri sono un po’ tristi. Alcuni giorni fa, mentre facevo rifornimento, si è fermata una bisarca carica di automobili di varie marche, ma in realtà erano tutte simili e questa omologazione mi fa un po’ paura perché fa mancare quel pizzico di pensiero utopico che è innato nell’uomo ed è quello che ci fa sognare, che ha creato l’arte, la cultura, il cinema. Ecco, prendiamo ad esempio il cinema, all’interno del quale l’automobile ha sempre giocato un ruolo molto importante: non potresti mai girare “Il sorpasso” (il celebre film con Vittorio Gassman ndr.) con una monovolume. Farebbe un po’ pena. Non credo ci si possa affezionare ad una monovolume”.

Possiamo fare un parallelo con l’arrivo del digitale nella fotografia, che ha tolto un po’ del romanticismo della pellicola e, probabilmente, anche reso più facile il lavoro del fotografo? “Non bisogna lasciarsi condizionare, anzi il digitale ha diminuito anche l’inquinamento della pellicola. E poi, anche qui il tocco dell’artista si nota sempre. Mi ricordo che quando realizzai le foto del primo catalogo dell’Alfa Romeo Duetto, in studio l’allora responsabile della pubblicità mi disse che avevo ritoccato quelle foto, invece avevo fatto montare il primo velatino che faceva da cielo e illuminai tutto indirettamente: una tecnica che in seguito fu copiata da tutti”.

Hai dichiarato apertamente la tua fede porschista, ma noi abbiamo la Ferrari che è un mito in tutto il mondo… “Mi emoziona il popolo rosso, in tutti i sensi, romagnolo che tifa per qualcosa che non potrà mai comperare. Ma a parte questo controsenso socio politico, non mi ricordo di nessun modello stradale in modo particolare. La Ferrari mi evoca la F.1. Il mito dell’uomo, invece, è notevole. Lui aveva capito che per fare la grande arte non si può essere democratici. Tra le macchine di allora, invece, mi intrigava la Lancia. Già il pensiero del Signor Lancia che costruisce un’automobile in un garage a Torino e solo quando l’ha finita si rende conto che il portone di uscita è più piccolo dell’automobile mi dà l’idea di qualcuno che all’interno di uno spazio ha fatto qualcosa di più grande della possibilità di portarlo all’esterno. Un uomo così, talmente trasportato dall’entusiasmo, per me è semplicemente grandioso”.

L’irrazionalità che rendeva affascinanti anche le corse di una volta, altro che la F. 1 moderna… “Io trovo che la F. 1 attuale sia altrettanto affascinante, perché è un insieme di tecnologia elettronica e meccanica spinta all’estremo, un insieme di cose che sembra sfuggire da ogni possibile controllo, eppure al di sopra di tutto c’è sempre e comunque il controllo umano. Grazie al mio amico Briatore sono stato ultimamente alla Renault e sono rimasto meravigliato da tutto quello che viene fatto per la ricerca”.

Con Briatore allora non si è trattato solo di collaborazione ai tempi della Benetton? “ Con Flavio adesso siamo amici, ci sentiamo di frequente e spesso mi invita ai Gran Premi, ma la prima volta che ci trovammo ci mancò poco che arrivassimo alle mani. Gli avrei messo il tavolo in testa, solo che era inchiodato per terra”

Come mai? “Luciano Benetton ci presentò in un ristorante di New York al tempo in cui Flavio si occupava dei negozi Benetton in quella città. Lui, in tenuta molto elegante, da tipico play boy, con fare subito aggressivo criticò le mie campagne dicendomi che sbagliavo a fotografare i “negri” perché non fanno vendere, mentre avrei dovuto fotografare tipi come il suo amico Donald Trump: biondo, ricco, di successo. Io gli risposi che il suo amico Trump sarebbe fallito nel giro di sei mesi, cosa che effettivamente avvenne con tre mesi di anticipo. A quel punto Flavio mi telefonò meravigliato chiedendomi come avessi fatto a saperlo ed io, bluffando, gli feci pesare la cosa dicendogli che l’unico a non saperlo era lui. Da quella volta è ancora convinto che io lo sapessi veramente e siamo diventati amici. Briatore è uno speciale, perché è così controsenso. Molti ironizzano sui suoi atteggiamenti, ma proprio per queste cose lui è molto forte. Per i suoi difetti. Dicono sia ignorante, ma questa è la sua cultura. Dicono sia irrispettoso, ma non è vero. Io credo che tutti i grandi uomini sono stati tali perché avevano grandi difetti”.

“Certo, a volte ti viene voglia di strozzarlo”, aggiunge Oliviero. Cioè? “Beh, in quel periodo si parlava di organizzare un gran premio cittadino a New York, esattamente nel Central Park, notoriamente frequentato da tanti animali che vivono allo stato selvatico, primi fra tutti i famosi scoiattoli. Ebbene, quando gli fecero presente che il caos e il rumore avrebbe sicuramente disturbato e fatto fuggire tutti quegli animali, lui imperturbabile rispose che il lunedì successivo alla gara avrebbero fatto arrivare dal Canada un paio di camion carichi di scoiattoli e tutto sarebbe tornato come prima”.

Davanti a noi si para la sagoma inconfondibile di una Fiat Multipla, quella “vera”, con il suo muso così simpatico che assomiglia tanto a quello dei pesciolini dei cartoni animati. “Ecco, quando la Fiat aveva le idee”, esclama Toscani. Cioè? “Se si vuole bene all’Italia bisogna parlare male della Fiat. Perché è successo che la Fiat ad un certo punto ha smesso di avere le grandi idee. Dopo aver inventato automobili eccezionali come la 600, la macchina per tutti, e la 500, quella “vera” che è una macchina incredibile, ad un certo punto è arrivato “l’Avvocato”, che forse non aveva idee o magari era più interessato ad altri aspetti, ed è successo che la Fiat ha perso tutto. Non solo: era privata, cioè della “famiglia”, quando andava bene mentre quando andava male era pubblica, di tutti gli italiani. Siamo soffocati dai mezzi pesanti perché non si è voluto pensare ad un sistema di trasporti integrato e la Fiat ha responsabilità socio politiche importantissime. La Fiat si è identificata nello stato e abbiamo pagato le tasse sulle auto superiori a 2000 cc quando non le produceva. Insomma, mi piacerebbe sapere quanto ognuno di noi ha contribuito a pagare per la Fiat oltre ad avergli comperato le automobili. E nonostante questo è fallita, quindi siamo falliti un po’ tutti. Tra l’altro, io fui anche invitato in un paio di occasioni a parlare con il mangement Fiat e in una occasione non ebbi problemi a dire che se fossero andati avanti così sarebbero falliti. Ed era il 1991! Vorrei dire una cosa che può sembrare drastica, ma sono convinto che quando non ci sarà più la Fiat l’Italia risorgerà. Perché nell’azienda torinese c’è ancora questa mentalità monopolista e solo allora forse ci sarà qualcuno, magari un giovane, che avrà la possibilità di fare un’automobile valida. Perché ho molti dubbi che procedendo così riusciranno a venirne fuori. Bisogna rivedere il sistema concettuale nell’affrontare un progetto: non si può fare il prodotto del voglio ma non posso. Bisogna fare il contrario. E credo che in questo il metodo Audi possa insegnare qualcosa”.

Più avanti incontriamo una Bianchina in panne e Toscani ricorda che “una volta un amico ruppe la quarta marcia della sua Bianchina mentre ci trovavamo a Parigi e non volendo rischiare la riparazione in loco mi chiese di accompagnarlo nel viaggio di ritorno a Milano. Bene, facemmo tutto il viaggio in terza, chiaramente percorrendo le strade normali perché non andavamo oltre i 50/60 all’ora. Fu davvero un’”avventura”. Intanto, dopo un veloce ma proficuo break (a base di wurstel, gentilmente organizzato dalla Scuderia Dolomiti e dell’appassionatissimo Ezio Zermiani), a Bolzano, attacchiamo l’ultima parte di gara che ci porterà nuovamente sul Passo Mendola per disputare le ultime prove a tempo.

Al volante è passato Toscani che per scaldarsi un po’ si ingarella con un equipaggio tedesco al volante di una bella Mercedes 230 L (ai quali, per inciso, finiremo davanti in classifica generale) e il “Maestro” dimostra di avere pure un bel “piedino”. Ma sei sempre così arrembante? “In effetti sono uno che “và”. Ma a parte la velocità, l’unica mia debolezza che forse è un fatto generazionale e per la quale mi ritrovo spesso fuori dalle regole, non faccio delle infrazioni gravi. Questo, per dire che non mi piace sorpassare dove non si può, o fare manovre che possano creare dei rischi per gli altri. E poi, sotto i 130 all’ora mi addormento e quindi divento pericoloso. Quindi, diciamo che lo faccio per gli altri. Anche se sono consapevole che la velocità, in fondo, è un rischio”.

Questa tua “debolezza” ti ha mai causato dei problemi? “Certo. Avevo fatto una campagna di sensibilizzazione per la regione Emilia Romagna dove compariva un’automobile accartocciata con scritto “modello quattro pirla in meno”. Un messaggio forte, che ebbe successo perché i giovani capirono che ammazzarsi così è un po’ da pirla. Però, dopo poco tempo mi pizzicarono, proprio in Emilia, a 204 all’ora sull’autostrada e il giorno dopo il Resto del Carlino titolò: preso Toscani, un pirla in meno. E in un certo senso sono stato contento, perché credo che anche questa mia infrazione e l’eco che ne è seguito sia servita  a sensibilizzare i giovani, perché è chiaro che chi va così forte è un po’ pirla. Anzi, quando i poliziotti mi riconobbero e mi chiesero se avevo qualcosa da dichiarare dissi: finalmente mi avete preso e mi togliete dalla circolazione per qualche mese. In fondo, non tutti i mali vengono per nuocere e bisogna accettare le conseguenze della propria pirlaggine”.

Ma sempre per questa tua “debolezza” ti sarà capitata qualche curva non perfettamente “a fuoco”? “Per fortuna, più che abilità, devo dire di no. Il più grosso spavento l’ho preso alcuni anni fa quando sono stato coinvolto in un grosso tamponamento in autostrada. Ma non per colpa mia”.

Già, dicono tutti così… “Fu un automobilista a tamponarmi, spingendomi sotto un camion che era già nel groviglio. Io, fortunatamente non ho mai causato un incidente per colpa mia, forse perché mi hanno tolto la patente prima che potessi fare danni peggiori. Ma per scaramanzia, tronchiamo questo argomento e tocchiamo ferro”.

Si, forse è meglio, anche perché ad una ventina di chilometri da Madonna di Campiglio ci attende una copiosa nevicata che ha già lasciato un abbondante manto sulla strada. Ci dividiamo un po’ il volante e, tra una scodata e l’altra, Toscani è pervaso dalla stessa euforia di un bambino all’arrivo della neve. “Questa è la vera Winter Marathon”, continua a ripetere. E non posso che essere d’accordo, anche a me la neve piace un sacco: il paesaggio intorno a noi è da favola e la perla dolomitica ci accoglie nel suo abito migliore. In Piazza Righi un manipolo di “irriducibili” vedendoci con la macchina aperta ci saluta come fossimo i vincitori. In effetti un “pochettino” di freddo l’abbiamo preso, ma non posso fare a meno di meravigliarmi pensando che le ultime otto ore sono letteralmente volate via con un compagno d’avventura così. Insomma, ne è veramente valsa la pena. Anche perché al ristorante con gli amici ci possiamo sempre andare domani sera ed anche per spaparanzarsi sul divano c’è sempre tempo. Però, speriamo almeno di trovare la dolce compagnia davanti al caminetto.