Purtroppo questa mattina ci è arrivata la notizia della scomparsa di “Gimax”, al secolo Carlo Franchi. Il sottoscritto ne ha seguito le gesta da ragazzino ma personalmente l’avevo conosciuto solo una decina di anni fa, quando aveva ripreso a frequentare l’autodromo di Monza dopo che si era allontanato dall’ambiente per un certo periodo per seguire un’altra sua grande passione, il golf. Si era sviluppata una bella amicizia, ravvivata da spassose chiacchierate condite da innumerevoli aneddoti riguardanti le sue avventure al volante e quello che succedeva in un ambiente goliardico. L’intervista (pubblicata su Automobilismo d’Epoca), che gli era piaciuta un sacco e che riproponiamo come ricordo, era venuta quasi naturale, con la foto d’apertura naturalmente scattata sul traguardo della “nostra” Monza.

Prima pubblichiamo un breve ricordo di Attilio Pessina (che ci ha fornito anche alcune sue foto), amico di famiglia di “Gimax”, ovviamente accompagnato da un aneddoto che contribuisce a illustrare un automobilismo che ormai non c’è più.

Questa notte è partito per la sua ultima corsa Carluccio Franchi, in arte GIMAX. È una di quelle notizie che non vorresti mai scrivere. Un Campione dell’automobilismo. “È facile ricordarsi le mie vittorie”: 100 volte primo, 10 volte Campione Italiano, 1 volta Campione Europeo. Sempre pronto alla battuta e un gran manico. Pilota ufficiale ed amico di Osella, era un mago degli Sport Prototipi. Amico dei fratelli Brambilla, con i quali aveva più volte intavolato duelli epici. Amava raccontarmi di quella volta, alla 1000 miglia di Monza, quando mio padre lo tirò fuori di peso dalla macchina, mezzo svenuto per lo sforzo di aver guidato sotto la pioggia incessante, in condizioni impossibili. Il suo compagno di squadra si rifiutò infatti di dargli il cambio. Guidò praticamente tutta la gara da solo. E quando la situazione era divenuta impossibile, passando davanti al traguardo faceva le corna al Direttore di gara, per dimostrargli la sua contrarietà…. Il buon Poltronieri, davano la gara in TV, commentava: " il concorrente Gimax si sta lamentando animatamente per le condizioni della pista……” Che la pista dei cieli ti sia amica.

Attilio Pessina

*** L’intervista

DOPPIA IDENTITA’

Smessi i panni di imprenditore, in pista vestiva quelli di “Gimax”. Lo pseudonimo serviva per nascondersi… alla banca. Diviso tra scrivania e abitacolo, è stato il più veloce dei tanti semi-professionisti della sua epoca.

Carlo Franchi, meglio conosciuto come “Gimax”, incarna al meglio la figura del gentleman driver anni '60-'80. Questa qualifica, magari, andava un po' stretta a tanti ragazzotti che, risultati alla mano, avrebbero potuto puntare al professionismo nelle quattro ruote ma alla domenica sera dovevano riporre nell'armadio tuta e casco per tornare il lunedì mattina in ufficio per mandare avanti la propria azienda. Alcuni di loro provenivano da famiglie facoltose, perciò grazie alla disponibilità economica si trovarono più facilmente la strada spianata per salire velocemente ai vertici dell'automobilismo. Altri, come nel caso specifico di “Gimax”, si erano fatti da soli e con abilità imprenditoriale riuscivano a pagarsi le corse, magari mettendosi anche in saccoccia qualcosa. Il tutto, ottenendo risultati di rilievo (6 Campionati Italiani Prototipi, tre assoluti e tre di classe, un Europeo Prototipi 2000 e un Tricolore di F. 2) e arrivando a correre in categorie importanti, fino a tentare addirittura l'avventura in Formula 1.  

“Allora un pilota valido poteva rientrare dei costi e addirittura guadagnare qualcosa, perché si trattavano gli ingaggi direttamente con gli organizzatori e c'erano in palio anche premi in denaro – conferma “Gimax” -. Nel 65 guadagnai anche dei soldi, perché correvo ufficialmente per De Sanctis ed i premi gara spettavano a me. Insomma, per uno che si dava da fare le corse erano accessibili, anche perché le macchine erano meno sofisticate. Infatti, molti piloti erano dei meccanici, e si trovavano anche aziende disposte a darti una mano. Quando nel '60 comprai la mia prima F. Junior (Volpini) gestivo un garage a Milano, poi passai nel settore dei veicoli industriali e per molti anni fui supportato dalla Fassi Gru con la quale collaboravo. Oggi, invece, per correre ad un livello accettabile servono cifre folli”.

Il fatto che ci fossero in palio dei soldi, però, forse contribuì a rendere le corse  un po' troppo combattute, fino al drammatico incidente di Caserta con le F. 3 dove morì Geki Russo...

“E' vero. Perché diversi piloti ci vivevano con le corse. Ad esempio Geki Russo, che era un potenziale campione. Insomma, nessuno ti regalava nulla”.

Ricorda un altro pilota particolarmente forte di allora?

“Tino Brambilla, era il vero fenomeno. Lo ha detto anche Enzo Ferrari nel suo libro. La prima volta che provò una F. 3, un pomeriggio a Monza dove c'erano tutti i migliori piloti dell'epoca, salì sulla mia Wainer e al primo giro fece il curvone in pieno lasciando tutti di stucco, perchè allora non c'erano chicane perciò anche i migliori normalmente alleggerivano. Lui aveva i numeri per diventare uno dei grandi, se solo avesse un po' limato il proprio carattere: era anche un bravo collaudatore e con la pioggia faceva la differenza, e aveva la “cattiveria” necessaria per emergere allora”. 

In più bisognava fare i conti anche con macchine e tracciati tutt'altro che sicure, che aria si respirava tra voi piloti?

“Beh, allora i conti si regolavano in pista. Faceva parte del gioco, ma c'era anche più cameratismo e all'occorrenza ci si aiutava. Io stesso vinsi il Campionato Italiano del 79 all'ultima gara, a Varano, con l'aiuto di una toccatina. Ci giocavamo il titolo io e Francia, al via Flammini dalla seconda fila scattò meglio di noi andando in testa. Dopo alcuni giri fece passare Francia ma quando venne il mio turno mi chiuse in tutti i modi, quindi al Ferro di Cavallo lo toccai leggermente sul posteriore facendolo girare. Arrivai secondo e vinsi il titolo”. 

Facciamo un passo indietro, come nacque la passione per le corse?  

“L'ho avuta fin da bambino. Un giorno successe un episodio, forse, premonitore: Gigi Villoresi venne a trovare degli zii a Barbaiana con una Maserati e noi ragazzini accerchiammo la macchina incuriositi. Al momento di ripartire la vettura non si mise in moto, lo aiutammo con una spinta e come ricompensa mi portò a fare un giro. Fui letteralmente rapito dal fascino di quella vettura e dal rumore. Lì scoccò la scintilla. Poi nacque un'amicizia, io seguii la sua carriera e lui i miei inizi nelle corse, tanto che chiamai Gigi il mio primogenito in suo onore”.

Quando debuttò in gara?

“Nel 1961, in F. Junior con una Volpini. Corsi in F. Junior per altri tre anni, poi nel 1965 vinsi il titolo tricolore di F. 2 con la De Sanctis”.

Un successo che pareva un trampolino di lancio verso una luminosa carriera,  invece...

“Firmai un contratto con la Matra per correre nell'Europeo di F. 2 1966. Avrei dovuto debuttare a Barcellona, al Montjuich, ma il mio manager mi propose come allenamento di partecipare la settimana precedente ad una gara di F. 3 a Imola, con una Wainer che mi prestò Tino Brambilla. Al quarto giro, sotto un autentico diluvio, uscii di pista prima della Tosa finendo in una scarpata e procurandomi ben 18 fratture e quattro mesi in carrozzella. Così addio contratto”.

Perso il treno con le monoposto i prototipi furono un ripiego?

“In quegli anni le gare dei prototipi erano molto considerate e agguerrite, tanto che ottenni la Superlicenza grazie al titolo Europeo prototipi. Ma ai prototipi ci arrivai quasi per caso: nel 76 corsi alcune gare in F. 2 con la Chevron di Trivellato senza risultati eccelsi, e nel frattempo corsi anche alcune gare con le Sport 2000. Camathias aveva comperato una March che, forse, per un difetto aerodinamico a volte manifestava improvvisi scarti sopra i 250 km/h. Lui, turbato da questo difetto non ne volle sapere di correrci e me la cedette per una cifra ridicola. Alla prima gara, a Misano, feci la pole e vinsi la gara, lasciando tutti di stucco. L'anno successivo vinsi il tricolore davanti a Francia e Osella mi propose di correre ufficialmente con una sua macchina, con cui vinsi il tricolore e l'europeo nel 78. Poi, sempre con un'Osella, ma spinta dal motore turbo Carma da 1420 cc, nell'81 conquistai il Campionato Italiano Prototipi vincendo 17 gare su 20; con quasi 500 cv avevo vita facile in condizioni normali ma con due gocce di pioggia erano dolori”.

Perchè lo pseudonimo di “Gimax”?

“Nel settore dei veicoli industriali, per effettuare i necessari investimenti servivano fidi bancari e per i parametri bancari l'attività di pilota non era considerata la più affidabile dati i rischi in ballo. Quindi per non farmi riconoscere iniziai a correre con lo pseudonimo di “Gimax”, dalle iniziali dei mie due figli Gigi e Massimiliano. Il bello è che a fine 1977 la Cariplo volle premiare i campioni degli sport nazionali e quando venne il mio turno alcuni dei dirigenti bancari che conoscevo restarono sorpresi vedendomi salire sul palco. Poco male, perché negli anni successivi fui sponsorizzato proprio dalla Cariplo”.

Come si concretizzò la possibilità di debuttare in F. 1?

“Chiesi all'ingegner Benzing di sondare la possibilità di correre in F. 1. Mi mise in contatto con Surtees e ci accordammo per fare le ultime quattro gare del mondiale '77, a partire da Zeltweg, con la monoposto usata da Brett Lunger che però andò distrutta la gara precedente al Nurburgring nell'incidente di Lauda. Poi nel '78 Keegan si fece male, la sua macchina restò libera e tramite l'amico Vittorio Brambilla ci accordammo per un test a Goodwood in previsione del Gran Premio d'Italia”.

Come fu l'impatto con la F. 1?

“Ottenni subito tempi molto buoni e, in tutta onestà, non conoscendo né la macchina né il tracciato mi parve molto strano. Perchè quell'anno il team era in difficoltà e solo Brambilla riusciva a qualificarsi, peraltro indietro”.

Infatti a Monza la realtà fu ben diversa, come mai?

“Per diversi problemi di cambio e assetto non riuscii a girare regolarmente, ma soprattutto non potei usare le gomme da qualifica. Infatti alla sera ci fu una accesa discussione con il team, tanto che la domenica rimasi nella mia casa al lago a vedere la gara. E pensare che, in qualità di riserva, in base al regolamento se fossi stato presente avrei potuto prendere il via alla seconda partenza data la mancanza di diverse vetture. Ma avrebbe avuto poco senso, anche perchè non avevo potuto provare la macchina con il pieno di benzina”.

Quindi, una bella avventura finita un po' amaramente...

“Soprattutto per come si era sviluppata tutta la vicenda, a cominciare dal test a Goodwood. Infatti, alcuni anni dopo una persona dell'ambiente mi disse che era tipico dei team in difficoltà utilizzare motori maggiorati o furbate del genere pur di convincere nuovi piloti a correre pagando. Per giunta non si trattava di cifre impossibili: il tutto costò 8 milioni di lire, coperti dagli sponsor, mentre ai giorni nostri sarebbe impensabile una cosa del genere. Non avevo pretese particolari, ma onestamente pensavo di potermi qualificare e fare una gara discreta, nel qual caso ci sarebbe stata la possibilità di proseguire con un programma di altre gare. Così, invece, persi la motivazione e avendo già quarant'anni e un'azienda da mandare avanti accantonai il pensiero della F. 1”.

Per lo meno del Mondiale, perchè con la F. 1 poi ci corse, dove?

“Nel '79 e '80 disputai 16 gare con la Williams del team Agostini, togliendomi delle belle soddisfazioni, come il 4° posto al GP Lotteria del 1980. Nel '79 corsi anche il GP Dino Ferrari a Imola, gara non valida per il mondiale ma alla quale parteciparono piloti top come Villeneuve, Schekter, Reutemann e Lauda, che vinse la gara. Io partii a fianco di Giacomelli, ma dovetti fermarmi per guai al motore”.

Ancora oggi si discute sull'effettivo valore di Agostini in monoposto, lei che ci ha corso insieme che idea si è fatto?

“Come talento puro non era secondo a nessuno. Faccio un esempio: in una sfida tra i dieci migliori piloti dell'epoca con macchina e tracciato nuovi per tutti, io avrei scommesso senza problema che nei primi cinque giri Ago avrebbe ottenuto i migliori tempi. Poi gli altri miglioravano, mentre Agostini impiegava più tempo e nell'arco di gara non riusciva a esprimere tutto il potenziale. In fondo anche un campione come lui è arrivato alle monoposto in età avanzata per competere con i ventenni rampanti”.

Nel 90 corse vincendo l'ultima gara, a Magione sotto la pioggia con una Sport Lucchini-Alfa Romeo, poi si staccò per molti anni dall'ambiente automobilistico dove ha fatto ritorno solo recentemente, come mai?

“Per un po' ho seguito mio figlio Gigi che correva in F. 3 e F. 3000 con buoni risultati Avrebbe dovuto fare un test con l'Osella F. 1, ma all'ultimo minuto mancò lo sponsor. Quindi un amico mi coinvolse nel golf, disputando molti tornei anche all'estero. Un paio di anni fa andai con mio figlio Massimiliano, che ha una Alfa GT Junior, alla Coppa Intereuropa e ho capito subito di aver ritrovato il mio ambiente”.

In quasi 30 anni di carriera ha vissuto diverse epoche e corso con tutti i tipi di macchina, quali ricorda in modo particolare?

“Gli anni '60 sono stati quelli più divertenti, sia perchè il pilota poteva metterci del suo sia per la spensieratezza con cui affrontavo le gare, mentre negli anni '70-'80 tutto era diventato più professionale e quindi c'era più pressione per portare a casa risultati. La March Sport mi ha dato grande soddisfazione, perchè la comprai per due lire e vinsi il titolo italiano. Ma anche altre, come l'Osella, soprattutto nelle 11 edizioni della 1000 Km a cui presi parte, con un secondo e due terzi posti assoluti e una vittoria di classe, o la Porsche 935 con cui partecipai alla 1000 Km del 1984, un autentico mostro. Ma mi sono divertito anche con le Turismo, con cui partecipai alle 4 Ore di Monza con Chiapparini”.

Qualche rimpianto?

“L'unico riguarda la faccenda del GP d'Italia F. 1, che rimane il punto di arrivo di chiunque inizia a correre in macchina. Ma in generale mi ritengo soddisfatto per i risultati ottenuti e per le tante vittorie con i prototipi, alcune apparentemente impossibili”.

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