Si suol dire che noi siamo la nostra storia, perciò nel caso di Supersprint è tanta roba! Innanzitutto perché parliamo di una storia lunga quasi settant’anni, durante i quali ha realizzato impianti di scarico apprezzati in tutto il mondo, tanto che tuttora il 90% delle vendite riguarda i mercati esteri, per una infinità di modelli di automobili: dalle piccole Giannini 500 alle sportive di maggior successo fino alle supercar più celebrate, come Ferrari, Porsche, Lamborghini. Stradali e da corsa. Maturando, spesso a fianco dei reparti corse delle Case, un know-how ai massimi livelli che oggi, così come ha fatto durante questo lungo percorso, può mettere in campo per lo sviluppo di nuovi progetti.

Foto di Dario Pellizzoni

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Infatti oggi l’azienda mantovana può disporre di un catalogo che conta circa 90.000 applicazioni che ripercorrono i quasi 70 anni di storia, come abbiamo potuto costatare direttamente durante la nostra visita restando letteralmente a bocca aperta davanti alla distesa di dime accuratamente dislocate sugli scaffali nei cortili esterni, che vanno dai modelli vintage anni ‘60 passando per le cosiddette youngtimer fino alle auto di ultimissima generazione.

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Perchè qui il progresso non si ferma. Anzi. Basti pensare che su un totale di 30 dipendenti, ben quattro persone sono dedicate a tempo pieno alla ricerca e sviluppo utilizzando quanto di meglio oggi offre la tecnologia, così come vengono fatti realizzare macchinari specifici per eseguire lavorazioni sempre più complesse e con nuove tipologie di materiali. Il tutto, però, mantenendo quella metodologia artigianale in grado di assicurare la massima cura dei dettagli, come se si trattasse di un abito sartoriale fatto su misura.

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Una idendità ben precisa, frutto di una scelta fortemente voluta dal “Capitano” Giuseppe Gilli, fondatore dell’azienda venuto a mancare nel 2015, che evidentemente aveva la vista lunga nello scrutare l’orizzonte e sapeva bene dove indirizzare la propria nave.

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“A metà anni ‘80 – racconta Federico Gilli (nella foto sopra, a sinistra, con Davide Branchini), che insieme al fratello Alessandro (che si occupa della parte tecnica) e al cugino Ennio è sul ponte di comando Supersprint -, mio padre ci lasciò la conduzione dell’azienda apprezzando il fatto che noi fossimo appassionati di motori. Si fidava di noi ma, giustamente, diciamo che ci “teneva d’occhio” con discrezione. Infatti non mancava mai di partecipare alle riunioni in cui dovevano essere prese scelte importanti. Ma anche in questo caso con discrezione, mai facendo pesare il suo ruolo ma cercando di farci notare i vari aspetti. Perchè lui aveva fatto la gavetta vera, perciò era molto oculato. Nella gran parte dei casi non ha avuto nulla da obbiettare sulle nostre decisioni, in alcune occasioni ha invece detto la sua, azzeccandoci sempre. Ad esempio, nel respingere l’offerta del Gruppo Fiat che negli anni ‘90 ci propose di passare a produrre grandi volumi di pezzi per loro, supportandoci anche per la dotazione delle attrezzature necessarie. In quel caso mio papà fu irremovibile, perché il passaggio a quel tipo di produzione, pur allettante inizialmente a livello di numeri, non ci avrebbe più lasciato spazio per seguire la nostra tradizionale clientela aftermarket, oltre a legarci inevitabilmente alle logiche aziendali del Gruppo, così come alla scelta dei materiali e metodo di lavorazione. Insomma, avremmo perso la nostra identità. Perchè tuttora il valore aggiunto dei prodotti Supersprint è la cura artigianale con cui vengono studiati e realizzati, paragonabile ad un abito di alta sartoria”.

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“Così come una delle nostre risorse principali è rappresentata dalla miriade di dime di cui disponiamo, che ci consentono di realizzare impianti di scarico per un amplissimo numero di modelli di auto. Tutte catalogate. Anzi, proprio durante la fase di catalogazione ci eravamo accorti che alcune erano andate perse, perciò abbiamo cercato di rifarle. Ad esempio, mi ricordo che ci contattò un cliente con una BMW 2002 Turbo per chiederci se avevamo un impianto per quel modello, quando ci accorgemmo che la dima era andata dispersa gli chiedemmo di portarci la sua macchina in azienda in modo tale da realizzare nuovamente l’impianto”. 

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Questo significa che nel caso non abbiate a magazzino un prodotto realizzate anche piccole serie?

“Abbiamo mediamente dai 10.000 ai 12.000 prodotti a magazzino, che ovviamente non riescono ad evadere tutti gli ordini, dato che il nostro catalogo conta circa 90.000 applicazioni – conferma Davide Branchini, responsabile dello stabilimento di Mantova da quando aveva 26 anni -. Noi lavoriamo su piccole serie, che possono andare da 1-2 pezzi fino ad una cinquantina, oppure un centinaio, dipendentemente dai modelli. Ma anche il singolo pezzo per richieste particolari”.

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Ma facciamo un passo indietro, partendo dall’inizio di questa bella storia, che ci illustra Federico Glli.

“Dopo essersi diplomato come geometra mio padre inizia a lavorare in ambito edile, che però non lo entusiasma. Perciò passa a lavorare per il Consorzio Agrario di Mantova, settore che lo appassiona. Dopo un paio di anni entra in società con un amico occupandosi della vendita di camion OM presso la concessionaria di Campogalliano. Un giorno questo amico gli parla della possibilità di rilevare un’azienda di Verona che realizza marmitte speciali ma si trova in difficoltà economiche. Completata l’acquisizione, nel 1955 quando mio padre ha 25 anni, l’azienda viene rinominata Supersprint: una bella intuizione, perché è un nome che trasmette dinamismo, velocità, ed è attuale ancora oggi”.

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“A fine anni ‘50 la produzione viene spostata nel mantovano, a pochi km dalla sede attuale. All’inizio era una piccola officina: c’era un solo saldatore che assemblava tutti i pezzi, compresi i terminali che venivano dipinti di colore rosso, perché dava l’idea delle corse. In quel periodo le vendite avvenivano per lo più in ambito locale, nelle aree di Mantova e Verona, poi un amico che frequentava la Germania per lavoro gli disse che quello poteva essere un mercato interessante per questi prodotti”.

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Detto fatto, nei fine settimana cominciò a fare la spola tra Italia e Germania caricando il furgone di marmitte che andava a proporre a rivenditori di ricambi, i quali all’epoca vendevano prodotti italiani della concorrenza. Si instaurò un buon rapporto con questi commercianti, tanto che loro stessi suggerirono delle idee su come sviluppare i prodotti in funzione delle richieste del mercato tedesco, che ben presto divenne quello più importante. Tuttavia molti dei prodotti riguardavano le piccole utilitarie italiane, 500 e 600, che venivano elaborate”.

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Perciò eravate in concorrenza con Abarth?

“Possiamo dire di si. Anche perché noi lavoravamo direttamente con Giannini, realizzando scarichi sportivi e da corsa, che spesso erano piuttosto simili, perché all’epoca molti piloti amatoriali andavano a correre con la stessa vettura che durante la settimana utilizzavano per andare a lavorare. In breve ci fu una incredibile espansione del mercato, perché molti giovani acquistavano quelle piccole vetture cercando di renderle più scattanti”.

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“Chi aveva più disponibilità si orientava invece sulle BMW, marchio che con l’arrivo dei modelli 1602, 1802 e via di seguito, conobbe un autentico boom. Perciò, ricordo che nel 1984, quando entrai in azienda, il mercato più importante era proprio quello tedesco, con l’80% delle vendite, mentre quello italiano valeva il 10% e il restante era composto da altri paesi europei e dal mercato americano, dove mio padre trascorreva lunghi periodi, in California, seguendo altre attività”.

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Ancora oggi la percentuale di vendita è in gran parte orientata all’estero, vero?

“Si, ma con maggiore equilibrio. Infatti è vero che tuttora le nostre vendite sono per il 90% verso i mercati esteri, ma perché ovviamente a livello mondiale c’è maggiore spazio. Infatti ad oggi il nostro primo mercato è quello USA, poi seguono a pari merito Italia (con l’impegno del distributore esclusivo RPM Racing Parts Milano di Lainate) e Germania, quindi Francia e Inghilterra, poi a seguire un po’ tutti gli stati europei. La nostra forza è l’ampiezza del nostro catalogo, che contempla modelli più datati, per i quali siamo intervenuti anche con aggiornamenti, fino a quelli di ultima generazione”.

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“L’altra scelta determinante che ha contribuito a fare la differenza è stata quella di puntare su automobili di un certo livello – interviene Davide Branchini -. Questo ci ha permesso di verificare che grazie alla grande ricerca che portiamo avanti nello sviluppo di nuovi apparati, passando magari anche 15 giorni su una macchina per realizzare prototipi e provarli al banco, abbiamo ottenuto standard molto elevati nello sviluppo di collettori e impianti di scarico. Tanto che un cliente con una Ferrari da competizione ci aveva commissionato lo sviluppo di un collettore in grado di migliorare le prestazioni di quello fornito con la vettura, ma quando abbiamo fatto i primi test al banco ci siamo accorti che il nostro a catalogo già rendeva meglio. Non ci voleva credere quando lo abbiamo chiamato per assistere alle prove. Ma nel tempo abbiamo avuto parecchie soddisfazioni di questo tipo. Infatti sono certo di non esagerare dicendo che siamo sempre stati al vertice, grazie a professionalità ed esperienza, che ci offre già un buon punto di partenza”. 

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Possiamo ipotizzare delle percentuali di incremento delle prestazioni tramite un impianto di scarico completo?

“Non è così automatico. Innanzitutto dipende dal tipo di vettura. Ad esempio sulle Porsche è piuttosto difficile ottenere un incremento di performance lavorando solo sullo scarico. Anzi, è addirittura facile peggiorare. Comunque noi, alla fine ci riusciamo. Però ci tengo a dire che in molti casi assistiamo a delle pure operazioni di marketing, dove i presunti miglioramenti interamente attribuiti all’impianto di scarico si ottengono invece anche grazie all’ausilio dell’elettronica. Una realtà acuita dal mondo dei social. E anche le Case giocano un po’ sulle cifre. Anche perché con le macchine moderne è sempre più difficile avere dei parametri del tutto reali dalle prove sui banchi a rulli. Infatti quando un cliente ci chiede di sviluppare un nuovo dispositivo noi chiediamo sempre che livello di incremento prestazionale desidera ottenere, perché oltre certi livelli elevati è necessario andare a toccare altri parametri, che noi possiamo segnalare. Però bisogna essere consapevoli di questo, perché spingendosi oltre certi parametri subentrano anche tutta una serie di “filtri” e protezioni che le Case automobilistiche stanno applicando in misura sempre maggiore. Sistemi di controllo sempre più sofisticati. Alla fine ne usciamo sempre, grazie all’esperienza e alla grande ricerca, ma è necessario fare un lavoro molto accurato altrimenti oltre certi limiti si ottiene un effetto deleterio, con cadute d coppia verticali. Un fenomeno a cui avevamo già assistito negli anni ‘90, quando subentrò la moda di allargare oltre misura lo scarico, ottenendo effetti negativi. Lo stesso vale per lo scarico laterale, non sempre paga”.

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A questo punto, dopo tanta “teoria” passiamo alla parte che preferiamo: con Davide Branchini iniziamo il giro dell’azienda, per vedere dal vivo come nasce e... “cresce” un impianto di scarico Supersprint. La scelta di partire dalla fine del processo potrebbe apparire strana, invece ha un suo perché. Infatti il nostro tour parte dal reparto lavaggio, che precede lo stoccaggio in magazzino oppure l’imballo nelle scatole per la spedizione.

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“Dopo l’apposito lavaggio sgrassante effettuato in reparto per rimuovere i residui di lavorazione, qui avviene il lavaggio finale, effettuato con soluzione alcalina non aggressiva e passaggio finale con acqua senza calcare in modo tale che le eventuali gocce residue non lascino macchie, che dona brillantezza al prodotto finito. Fino a metà anni 2000 in questo reparto avveniva anche la verniciatura, tranne per un 20% dei prodotti già in acciaio inox”, spiega Branchini.

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“Ripercorrendo in breve la storia delle marmitte, negli anni ‘60 queste venivano prodotte in ferro, poi da metà anni ‘70 questo veniva ricoperto di alluminio a caldo, allungando di molto la vita della marmitta. Alla fine delli anni ‘80, con l’avvento della benzina verde che aveva un effetto molto corrosivo sull’alluminio, iniziammo ad utilizzare l’acciaio AISI 409, diciamo quello più “povero” tra gli acciai inossidabili, creato appositamente per gli scarichi originali perché aveva un costo contenuto. Però dato che non si poteva lucidare veniva verniciato. Negli anni a seguire cominciammo a realizzare un 20% dei nostri prodotti in acciaio inossidabile AISI 304, convertendo tutta la nostra produzione con questo materiale da metà anni 2000. Questo non comporta vantaggi a livello prestazionale, ma certamente è più bello da vedere e garantisce durata”. 

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A proposito di materiali, si parla molto di scarichi in titanio, soprattutto per vetture sportive e da corsa, come mai Supersprint non utilizza questo materiale?

“Il titanio è un materiale fantastico per certi motivi, perché già di base ha un peso specifico inferiore del 30% rispetto all’acciaio inossidabile, inoltre avendo anche una resistenza meccanica superiore a parità di superfici diminuisce ancora il peso potendo utilizzare spessori minori. Ma il titanio teme le alte temperature e intorno ai 700° cambia la sua struttura molecolare cristallina, perdendo caratteristiche meccaniche e di resistenza, diventando addirittura fragile. Semplificando dico che si “vetrifica”. Quando le temperature salgono a questi livelli il titanio subisce un degrado incredibile delle caratteristiche tecniche rispetto all’acciaio inossidabile, perciò se pensiamo che in una vettura la parte di scarico che arriva al catalizzatore può andare dai 700° ai 900°, secondo noi il titanio non è ideale per l’utilizzo sulle automobili, dove l’impianto di scarico si trova in posizioni chiuse. Inoltre, se parliamo di un’auto da corsa, nell’arco dello stesso percorso il motore si trova per un tempo decisamente maggiore a pieno regime rispetto ad una moto. Quindi, stando a quanto ci hanno illustrato dei tecnici nella produzione di metalli, per dare una informazione corretta bisogna dire che il materiale utilizzato per realizzare scarichi auto da parte di alcune aziende, comunemente definito titanio, è in realtà una lega al cui interno ci sono materiali in grado di dare maggiore resistenza al calore. Infatti mi risulta che in F. 1 si utilizzi l’Inconel, una super lega con il 70% di Nichel, della stessa famiglia utilizzata nelle centrali nucleari per contenere il nocciolo”.

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Ed ora, sempre guidati da Davide Branchini, partiamo dall’inizio del processo di realizzazione dei pezzi che andranno a comporre collettori, downpipe e linea di scarico: il tavolo di lettura del layout.

“Dopo avere elaborato lo studio del componente da realizzare, i dati vengono inseriti nel computer collegato al tavolo cartesiano dove una struttura mobile può “copiare” il leyout del tubo da riprodurre. Dato che si tratta di un tavolo cartesiano vengono letti i punti centrali di ogni direttrice, dati che servono a fornire le coordinate cartesiane di ogni centro alla macchina curvatubi. Ma siccome durante la curvatura l’acciaio inossidabile subisce una variazione dei gradi di angolazione, diventa importante verificare con il tubo i dati reali in modo tale da apportare le correzioni per compensare globalmente le variazioni che si verificano durante le lavorazioni. Una fase in cui rimane determinante l’apporto del tecnico. Questo ci permette di essere molto elastici nell’elaborazione dei prototipi, anche perché i macchinari di ultima generazione sono dotati di appositi simulatori. Per contro la tecnologia ha un po’ complicato le cose: prima c’erano solo tre parametri sui quali agire: curvatura, tratto rettilineo e rotazione, mentre ora ci sono molti più parametri con i quali fare i conti. Peraltro è in arrivo una nuova macchina curvatubi, in grado di curvare fino a 120 gradi diametri da 90 e 100 mm, per i quali è necessaria una macchina molto grossa e potente”.

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Un altro dei passaggi fondamentali nella preparazione delle parti che poi andranno a comporre il dispositivo di scarico riguarda il taglio dei tubi, con la misura e l’angolazione perfetta in funzione di quello che si dovrà poi realizzare, dall’apparato più semplice a quello più complesso.

“A livello di prestazioni c’è una bella differenza tra il tipo di convergenza dei collettori nel, o nei, tubi dell’impianto di scarico: da 2 in 1 fino a 5 in 1, come vedremo. Ovviamente se parliamo di auto prestazionali o da competizioni la cosa migliore è avere una convergenza di tipo sagomato, cioè con i tubi che si raccordano in modo perfetto tra loro convergendo in modo guidato nel tubo singolo, in modo tale da creare minore “attrito” possibile tra i vari flussi”.

 

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“Mentre per automobili meno esasperate, o comunque quando diventa importante anche una certa economia di costi, una raccordatura semplificata con convogliatore esterno”.

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“Ovviamente ci sono differenze prestazionali tra le due soluzioni, ma nemmeno così trascendentali come si può pensare, mentre la grande differenza c’è tra un collettore in ghisa, materiale poroso che frena i flussi, e la soluzione in tubi. Tornando al discorso precedente, è un po’ come la teoria che vuole i collettori di scarico di lunghezza esattamente uguale, mentre noi abbiamo visto che anche nel caso in cui non siano perfettamente uguali come lunghezza ma hanno un leyout differente, studiato ad hoc, avviene una sorta di compensazione. D’altronde in alcuni casi si è costretti a sacrificare il leyout ideale a causa degli spazi disponibili ridotti, oppure per la presenza di accessori, perciò è necessario studiare la giusta compensazione. Abbiamo messo a punto questa tecnica lavorando per anni con i tecnici di Fiat e Alfa Corse, così come ora collaboriamo con Peugeot Sport, durante i quali spesso siamo stati noi a spiegare loro come sviluppare il leyout in funzione degli ingombri. Naturalmente in quel caso l’obbiettivo è la massima prestazione, mentre quando si realizza uno scarico per la produzione vanno tenuti presenti anche i costi necessari per la realizzazione”.

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Naturalmente nella realizzazione di uno scarico con caratteristiche sportive va ottimizzato ogni aspetto: dal leyout visibile esternamente a quello interno ai silenziatori, fino al sound.

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“Noi disegniamo il leyout interno ai silenziatori in modo tale che sia il più diretto possibile, così come spesso studiamo apposite flange. Ad esempio abbiamo realizzato uno speciale collettore per la M5 su cui abbiamo messo il brevetto: dato che in funzione del calore va tenuto presente un certo allungamento dei vari tubi, abbiamo studiato una flangia con una speciale guarnizione in grafite (progettata dallo stesso Branchini) che garantisce la tenuta e molle di fissaggio esterne”. 

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“Il sistema di assorbimento del rumore è di tipo tradizionale, con una sorta di tessuto inox che avvolge il tubo, a spirale in modo tale da garantire tenuta, facendo da barriera alla lana di roccia che riempie il silenziatore così da evitare che questa venga “aspirata”, e quindi fuoriesca, dalla depressione creata dal passaggio veloce del flusso. Però, pur svolgendo il ruolo di barriera fisica, la lana inox lascia passare le onde sonore consentendo di creare il sound voluto. A tale scopo, nel caso delle Porsche abbiamo realizzato la famosa “X pipe” che collega le due bancate così da mantenere il caratteristico sound”.

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Un altro passaggio fondamentale è, naturalmente, quello della saldatura tra i vari elementi, lavorazione che in Supersprint viene ancora eseguita manualmente. E in questo senso va detto che c’è un’autentica “caccia all’uomo” per trovare personale specializzato.

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“Una volta terminata la realizzazione del prototipo del silenziatore e deliberato, questo viene passato ad una officina esterna che realizza i corpi marmitta per noi. Si tratta di personale fidato, che in passato ha lavorato in azienda. Il lavoro del cosiddetto “marmittaio” può apparire semplice, si tratta di piegare tubi o lamiere, realizzare i fondelli tramite imbutitura e saldarli insieme, ma tra i diversi modi di lavorare posso garantire che c’è di mezzo un mondo. Perciò è importante per noi poter contare su persone che abbiano assimilato negli anni la nostra metodologia di lavoro e utilizzino materiale indicato da noi. Poi naturalmente in azienda vengono comunque eseguiti controlli “distruttivi” a campione”. 

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“Il tocco finale è la bordatura e marchiatura laser del terminale”. 

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Per quanto riguarda le saldature si è passati dalla classica saldatura a cannello degli anni ‘60 a quella a Mig, la classica torcia, fino all’utilizzo del TIG per determinati prodotti come i downpipe oppure impianti per vetture di un certo livello dato che questo tipo di saldatura offre un risultato estetico migliore”.

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Nel nostro tour si conclude passando per un reparto dove su uno dei due ponti sollevatori campeggia una BMW Serie 3 E21 e, infine, nella sala prova con banco a rulli.

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“Quando dobbiamo realizzare un nuovo impianto, oppure come in questo caso rifarne uno di un modello di cui è andata persa la dima, solleviamo l’auto sul ponte per visualizzare i passaggi e gli ingombri dettati dai vari accessori. Questa è una fase molto delicata, soprattutto sulle auto nuove, dove lo spazio disponibile è sempre più sacrificato dalla presenza di una miriade di accessori, mentre era certamente maggiore sulle auto vecchio stile. Se lo scarico non è compromesso, nel caso di auto datate, testiamo l’auto al banco prova con il suo impianto originale, così da avere tutti i parametri sui quali ragionare, compreso il sound. Per lo sviluppo del nostro nuovo impianto partiamo dalla parte posteriore, quindi si passa alla parte centrale e anteriore, per finire con il downpipe e collettori. Nel caso di un modello che monta un tipo di motore sul quale abbiamo già lavorato partiamo dalla base di quello studio, adeguando il leyout al modello di vettura in questione, così come nel caso di una semplice evoluzione di quel motore. Mentre per un motore nuovo si esegue lo studio completo. Quindi si realizza il prototipo e, conseguentemente, il manichino sulla maschera, passando alla fase test. Il tocco finale, sulle automobili moderne, riguarda il necessario intervento anche sulla parte elettronica, per limitare “filtri” o “vincoli” determinati da sensori e sonde varie, soprattutto nella parte centrale in presenza anche di catalizzatori e OPF, che impedirebbero l’incremento di performance oltre certi livelli”.  

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