Vogliamo ricordare Alberto Colombo, che ci ha lasciati il giorno dell’Epifania a 77 anni, riprendendo una nostra intervista che risale al 2015 e che, a nostro avviso, aiuta a comprendere bene chi fosse il “Capellone di Varedo”. Non solo il pilota ma soprattutto la persona. Sempre a tutto gas Alberto!
Alberto Colombo appartiene certamente a quella schiera di potenziali campioni che a suon di risultati si sarebbero meritati una concreta chance in F. 1. Invece, come purtroppo è capitato e capita spesso nell’automobilismo, molti piloti talentuosi non hanno avuto la possibilità di accedere alla massima formula per dimostrare il loro reale valore. Il brianzolo, comunque, non si è perso d’animo e da zero ha creato una propria squadra con la quale per un intero lustro, dal 1976 al 1980, è sempre stato tra i migliori piloti privati della F. 2 lottando spesso anche con quelli ufficiali negli anni di massimo splendore della categoria.
Com’è nata la passione?
“L’ho avuta fin da bambino. Nel classico tema alle elementari su cosa avrei voluto fare da grande in non ebbi dubbi: il pilota. Però, allora, di moto. Poi, un mio zio appassionato mi portava spesso a Monza da piccolo e rimasi affascinato da quel mondo, tanto da ripetere che un giorno ci stato anch’io lì in pista”.
E così avvenne. Come?
“Nel 1967 acquistai per 350.000 Lire una F. Monza CRM. Non sapevo come si guidasse una vettura da corsa, tantomeno una monoposto. La mia pista di prova fu la Superstrada Milano-Meda, in costruzione. La macchina era curata dal meccanico del paese e ci presentammo alla prima gara all’avventura, però ci togliemmo qualche soddisfazione. L’anno dopo comprai una Lab usata, velocissima, con cui vinsi il titolo italiano di F. Monza arrivando 2° nel Cadetti. Poi passai in F. 850 e F. Ford, fino alla F. 3 nel 1972, che allora era molto competitiva”.
E pure impegnativa economicamente, vero?
“I costi non erano paragonabili a quelli attuali ed i premi in denaro erano sostanziosi. Perciò piazzandosi bene si poteva anche guadagnare, tanto che c’erano dei piloti professionisti. Soprattutto piloti stranieri, che correvano praticamente tutte le domeniche in giro per l’Europa. Uno di questi era Ronnie Peterson, un vero fuoriclasse che ha ottenuto meno di quanto meritasse. Forse per il suo carattere, molto modesto a differenza di altri piloti ben più scaltri. Inoltre, c’erano molti team manager di F. 1 che seguivano la F. 3 in cerca di talenti”.
Quali piloti ricordi tra i più forti?
“Beh, il gruppo dei francesi, con i vari Depailler, Laffitte, Jabuoille, Ragnotti, con le Alpine ufficiali, grazie alla politica della Federazione. Mentre da noi ci si doveva arrangiare da soli. Però non mancavano i nostri piloti molto forti: Vittorio Brambilla, Pino Pica, Giovanni Salvati, Gian Luigi Picchi. Insomma, era dura, perché c’erano molte macchine e bisognava guadagnarsi l’accesso alla finale con le batterie di qualificazione”.
Comunque arrivasti a vincere il titolo…
“Nel 73. Dopo averlo mancato l’anno prima per un punto (vinto da Carlo Giorgio) causa la rottura del motore”.
Sempre da privato?
“Non esattamente. Avevo conosciuto un meccanico molto bravo, Paolo Pavanello. Cominciò a seguirmi senza un vero team ufficiale, e ci togliemmo delle belle soddisfazioni. La svolta fortunata avvenne per un incidente, al Nurburgring, in cui andò distrutta la GRD con cui correvo. Pavanello mi convinse ad andare in Inghilterra per acquistare una March. Partimmo dall’Italia col camioncino ma a Bicester Robin Herd ci disse che non c’erano macchine disponibili, a meno che ce la fossimo costruita da noi. Ci piazzammo in un angolo dell’azienda e Pavanello, che si era fatto amico il magazziniere, ottenne il materiale migliore, addirittura alcuni pezzi della F. 1. Costruì una F. 3 “fuoriserie”, con la quale vinsi quasi tutte le gare e il titolo”.
Un titolo che purtroppo non funzionò da trampolino, come mai?
“Mi sento di dire che allora non esisteva un sistema di merito. Avendo vinto il titolo F. 3 l’anno prima mi sarei aspettato una chiamata nella squadra CSAI F. 2 del ‘75, invece presero Flammini e Truffo”.
Per questo pensasti di fare una tua squadra in F. 2?
“Nel ’75 corsi in F. 2 con il team Trivellato, ma fu una stagione deludente soprattutto per i tanti problemi tecnici. Perciò decisi di fondare il team Sanremo Racing per la stagione successiva. La squadra era molto buona, perché avevo selezionato nell’ambiente persone molto valide in ogni settore. Infatti abbiamo fatto delle belle stagioni, nel 77 e 78 lottando addirittura con le squadre ufficiali nonostante i nostri motori preparati da Heidegger, pur essendo buoni, non potessero certo competere con i BMW ufficiali o i V6 Renault”.
Col senno di poi fu una scelta giusta?
“Dal mio punto di vista si, perché avevo il controllo della situazione. Con Trivellato avevo perso delle gare per guasti banali causati da materiale usurato”.
Chi erano i piloti più forti in F. 2 allora?
“Il più forte, indubbiamente, era Peterson. Gli ho visto fare cose fantastiche, con la vettura in equilibrio in derapata su curvoni da 250 all’ora. Anche Laffitte andava molto forte, con una Martini che non era il massimo, e Brian Henton, un vero mastino non adeguatamente valorizzato. E naturalmente Giacomelli, meticolosissimo sulla tecnica e intelligente in gara, Patrese, Cheever, Brancatelli, De Angelis, Fontanesi e Pesenti Rossi. Insomma, eravamo un bel gruppo di piloti italiani”.
Qualche ricordo particolare?
“Il podio al Mugello ’77, dietro a Giacomelli e Patrese. Loro con March e Crevron ufficiali, e poi noi con la March privatissima. Quell’anno ottenni altri bei piazzamenti terminando 7° nell’Europeo (appena dietro Rosberg e Giacomelli, ndr.) in mezzo a macchine ufficiali. Una cosa eccezionale perché la F. 2 di quegli anni era tosta. La nostra macchina andava molto bene, perché avevamo smontato tutta la scocca con criteri aeronautici: oltre ai rivetti i pannelli erano stati incollati garantendo una rigidità nettamente superiore. Avevamo anche uno strumento che controllava la temperatura in uscita dei gas di scarico, che ci consentiva di regolare la carburazione nonostante la mancanza di elettronica”.
E’ vero che i campioni devono essere anche cattivi?
“Certo. Ad esempio, Peterson aveva un viso d’angelo, ma in pista non faceva sconti a nessuno. Per primeggiare bisogna mettere in difficoltà l’avversario. Sempre, anche quando non sarebbe necessario. Perciò il piccolo sgarbo, la chiusura, anche la toccatina, sono normali. Fanno parte delle regole non scritte di questo sport. Oggi al minimo contatto il pilota viene messo sotto inchiesta. Così si è snaturato questo sport, che non è solo tecnica ma anche una dose di rischio che comunque c’è e non deve mai mancare. Adesso si usa asfaltare le vie di fuga, così tutti possono prendersi dei rischi senza che succeda nulla, mentre una volta un azzardo poteva costare la gara terminata nella sabbia. In staccata la differenza tra un campione e un buon pilota erano parecchi metri, perché c’erano molte più difficoltà, come l’usura dei freni o la difficoltà di cambiata. Oggi la tecnologia ha portato tutti a frenare con uno scarto minimo, così come in partenza tutto è lasciato ai controlli elettronici e con il servosterzo la guida è pure molto meno faticosa”.
Colombo si è adeguato alla cattiveria?
“Non c’erano alternative. Distinguendo però cattivo da pericoloso. Anche perché allora si rischiava parecchio. Fortunatamente all’epoca fu scongiurato il pericolo maggiore, quello del fuoco, che davvero faceva paura a tutti”.
In una ipotetica classifica in che posizione ti metteresti?
“Non mi posso mettere nell’olimpo, però non mi lamento. Già essere salito su una F. 1 senza pagare significa che qualcosa hai fatto. Se fosse esistito un ranking, con i risultati ottenuti in funzione dei mezzi, credo che avrei potuto essere tra i primi 30 piloti nel mondo”.
Posizione in linea con gli obbiettivi che ti ponevi?
“Da privato, realisticamente, l’obbiettivo primario era fare punti. Puntare al podio lo consideravo già eccezionale. La vittoria era l’obbiettivo inconfessato, solo sfiorato in un paio di occasioni: a Pergusa nel 1978, dopo un grande recupero su Giacomelli a pochi giri dalla fine scivolai sull’olio perso da un altro concorrente. E a Monza 1980, nell’ultima gara della mia carriera, dove arrivai secondo in volata dietro a Warwick dopo avere provato a superarlo per tutta la gara”.
Dati i buoni risultati ottenuti da pilota privato non hai mai avuto una proposta ufficiale?
“In realtà si, e a distanza di tempo mi pento di non averla accettata. Robin Herd mi considerava molto bene e a fine ’78 mi offrì un contratto per correre in F. Indy con un team valido, ma il mio traguardo restava la F. 1 e andare in America mi sembrava un ripiego”.
Poi in effetti è arrivata qualche chance in F. 1 ma con poca fortuna, come mai?
“Diciamo esperienze estemporanee, arrivate anche tardi. Arturo Merzario mi chiamò la settimana prima del Gran Premio per correre a Monza con la sua seconda macchina. Il primo turno di libere ci fu un problema al leveraggio del cambio, mentre nel secondo uscii di pista alla Roggia per la rottura dell’uniball del braccetto dello sterzo. Mi restò l’amaro in bocca, perché riuscire a percorrere solo pochi giri non ha senso, mentre sulla pista di casa avrei potuto puntare a qualificarmi. Poi mi chiamò l’ATS per sostituire Jarier che si era fatto male. Appena arrivato nel box l’altro pilota, Jochen Mass, mi consiglia di non contraddire mai il patron Gunther Smidth, che peraltro parla solo tedesco. Per le qualifiche del sabato Smidth decide di non far cambiare il motore giunto a limite chilometraggio, che infatti si rompe. A Jarama, nelle libere, la macchina è inguidabile. Su consiglio di Vittorio Brambilla sostituiamo i cerchi con canale da 19” con quelli da 21”, i problemi si risolvono e miglioro di 1,5” il tempo. Ma senza una ragione per le qualifiche Smidth ordina di rimontare i cerchi più stretti ed è un disastro. Mi convocano per una sessione di test a Hockenheim, dove la settimana prima ero andato forte con la F. 2, e mi fanno salire in macchina solo verso la fine della terza giornata. Dopo due giri resto senza benzina. Riparto e mi rimane solo il tempo per un giro cronometrato, dopo il quale non si dicono soddisfatti del risultato. A quel punto me ne andai dicendogli di non provare più a chiamarmi. Così tornai a correre in F. 2 con la mia squadra, con cui disputai due belle stagioni, soprattutto l’ultima nel 1980”.
Dopo la quale ti ritirasti, perché?
“Mi accorsi che preparare la borsa per partire per una gara mi costava fatica. Non provavo più l’entusiasmo di sempre. Realizzai che era giunto il momento di smettere. Forse anche per i rospi che avevo dovuto ingoiare. Inoltre, ero consapevole di essere arrivato a un punto dal quale non potevo più avanzare: in F. 2 non avrei mai ottenuto una guida ufficiale e il sogno della F. 1 si era definitivamente allontanato. Sentivo anche la necessità di fermarmi e creare una famiglia, perché fino a quel momento non avevo mai voluto legami”.
Hai mai avuto ripensamenti o rimpianti?
“No. Mi sento soddisfatto. Perché nell’automobilismo spesso i risultati sono legati a tante variabili, primo fra tutti il budget che poi ne determina altre, perciò i risultati che ho ottenuto per me rappresentano il massimo possibile dati i mezzi a disposizione. Sotto il profilo della guida sono pochissimi i piloti che reputo siano stati più forti di me. Tutti nomi di un certo livello, tra i quali spiccano Peterson e Fontanesi. Mentre con gli altri ho sempre lottato alla pari. L’unico rimpianto, se vogliamo, è quello di non essere riuscito per pochissimo a chiudere in bellezza la carriera vincendo l’ultima gara sulla pista di casa, a Monza, dove arrivai in volata dietro Warwick”.
Non hai mai corso con le ruote coperte, perchè?
“Non mi hanno mai affascinato. Per me la vera auto da corsa è la monoposto”.
Ti è mai venuta voglia di tornare a correre qualche gara, magari proprio con le F. 2 storiche?
“No. Alcuni anni fa mi telefonò l’attuale proprietario inglese della mia March 782, proponendomi di correrci a Monza, l’ho ringraziato ma ho declinato l’invito. Perché, quando ho detto basta è stato definitivo. Magari qualche giro in prove libere, giusto per riprovare certe sensazioni mi piacerebbe farlo, ma dato che, secondo me, ogni volta che si va in pista è per dimostrare qualcosa non ne trovo il senso. E poi con certe macchine bisogna anche sapere esattamente in che condizioni sono”.
(Foto apertura di Eugenio Mosca, altre fornite direttamente da Alberto Colombo all’epoca dell’intervista e da Patrizio Cantù)